"Che hai detto?" – Breve storia di un espatriato a Siena

Si sa, la prima cosa che uno studente fuori sede nota una volta che entra nel mondo universitario è che non tutti parlano come lui si sarebbe aspettato. Si trova immerso in una babele di lingue tale da arrivare a pensare, almeno per un momento, di essere partito per l’Erasmus.

Il nostro eroe è un ragazzo come tanti approdato a Siena e convinto di risultare comprensibile ovunque, ma presto scoprirà che la “lingua di casa” è sconosciuta ai più e i suoi coinquilini lo guardano attoniti di fronte alla richiesta di avere una mappina (straccio per pulire).

È la fine.

Vaga per Banchi di Sopra alla ricerca di un conforto che potrà trovare solo in un cannolo, un bocconotto, una seadas, un bonet o una fregolotta, a seconda della provenienza dello sventurato. Siccome le disgrazie non vengono mai sole, scoprirà presto che in Toscana il pane è senza sale. È sciapìt, sciocco, bambu, ‘nzìputu, grevio, desavio. Una telefonata e parte il pacco: una ricca cornucopia di sapori inebrianti (e il casereccio salato, o una puccia), perché niente è come la pummarol della mamma e l’olio della nonna. È necessario, in ogni caso, fare la spesa per rifornirsi di tutti quegli articoli utili alla sopravvivenza: dalle padelle (farsore, sartaìne, sartànie, paredde) al grembiule (ventaliccu, mantusina, traversa, parannanza), per finire con le bottiglie di vodka.

Iniziano i corsi all’università. Tra una pausa e l’altra mangia un ciaccino (la focaccia ripiena) e tenta di aruffianasse qualche collega per gli appunti del giorno prima. Sì, ieri aveva bigiato, fatto filone, sega, vela, sale, busa. Si aggrappa al primo gruppetto che incontra fuori dall’aula e chiede una paglia… una sgaret? Una paina, una sizza, una ciospa, una siga? Una cicca. Si sente un espatriato. È un bailamme di esclamazioni, domande, imprecazioni come “Chi tti vonu!”, “Nun me coggia”, “te capi’?” e “ostrega!” (quest’ultima declinabile in ammazza, frèchete, gesboro, delafìa, minchia, mizzica, maremma).

All’improvviso, da quel turbinio di parole estranee, emerge un’esclamazione familiare e così lo sventurato individua una ragazza che parla il suo stesso dialetto: è la donna salvifica degli stilnovisti. È carina anche se un po’ sborona, locca, fumusa, loffia, muntat, fa la ganza. “Arcàl da ssu pet di ciccj”, direbbe un abruzzese che vuole che qualcuno scenda dal piedistallo. In più ha lo zit(o), il moroso, il vagnone, su piccioccu, il damo, il citto, il pischello… non s’ha da fare.

Arriva il giorno dell’esame e se fino a ventiquattro ore prima credeva che sarebbe stato come bere un bicchier d’acqua, quella mattina si sente un completo fesso, grullo, babbu, mona, balengu, scimpru, ciu(o)t, tordo per aver abbandonato il letto. Grazie alla sua magistrale padronanza dell’ars dictandi (sa parla’) supera l’esame e finalmente le bottiglie di vodka trovano uno scopo: si fa festa (che per alcuni toscani sta per “smettere di lavorare”)…

Una volta ripresa percezione di sé, apre gli occhi. È giorno ma vattelappesca che ora. Abbassa lo sguardo e vede una deliziosa pìnnice agrieste (pìrmice, scaldapuzza, insomma quegli affarini verdi che puzzano quando vengono schiacciati con tanto di esclamazioni vigorose quali toh, tie’, li mortacci…, va’ a ciapa’ i ratt) che cammina lungo il suo braccio. Si chiede come sia arrivato alle Logge del Papa, come abbia fatto a dormire lì e soprattutto per quanto tempo, quando d’improvviso sente un suono ritmico in lontananza: sono i tamburi delle contrade.

Camurria, è domenica mattina!

 

Ilaria Borrelli

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