Camminando su "Il ponte delle spie"

La formula del “Based on a true story” sta diventando un campo in cui si rischia molto e, in molti casi, un campo dove si finisce per tralasciare la spettacolarità del reale narrato attraverso la pellicola. Ma per fortuna ci pensa Steven Spielberg a regalarci un film in grado di lasciarci piacevolmente sorpresi di come basti la realtà a far battere i nostri cuori.

Basta una sola visione per capire che Il ponte delle spie (Bridge of spies) è una pellicola senza tempo: un nuovo classico che ha tutte le carte in regola per fare incetta di premi, e che dimostra quanto la nostra epoca abbia un disperato bisogno di belle storie ben raccontate. In un momento in cui il cinismo nell’espressione artistica va tanto di moda, ciò che fa Spielberg da più di trent’anni dimostra chiaramente la maestranza di quest’uomo nel raccontare storie importanti con una voce unica, capace di toccare le nostre corde più profonde, senza mai risultare retorico, pedante o reazionario. Roba per pochi. Roba da maestri.

Il ponte delle spie è, come detto all’inizio, una storia basata su fatti realmente accaduti, ma è anche un dramma intenso e vibrante, contaminato da un inaspettato tocco di black humor dovuto, chiaramente, alla revisione dello script originale di Matt Charman, realizzata dai terribili fratelli Coen. Il film si apre nella New York del 1957, più precisamente a Brooklyn. Rudolf Abel (Mark Rylance), viene catturato dall’FBI con l’accusa di essere una spia sovietica.

A difenderlo è chiamato l’avvocato James Donovan (Tom Hanks), scelto dal suo studio per essere un uomo dai saldi principi, perfetto per salvaguardare l’immagine degli Stati Uniti come del paese che agisce nel pieno rispetto dei diritti di tutti i cittadini, compresi quelli più scomodi. Donovan inizialmente è piuttosto schivo sull’accettare l’incarico o meno, per come la faccenda possa avere un risvolto negativo sulla sua immagine lavorativa e famigliare. Essere l’avvocato difensore di una spia russa in piena guerra fredda non è certo l’incarico più ambito.

Ben presto, però, il caso e la figura di Abel cominciano ad appassionarlo. Mentre tutta l’America lo vorrebbe vedere condannato a morte, Donovan si butta a testa bassa in una battaglia legale che finirà per creare tensioni all’interno del suo stesso studio e a fare di lui il nuovo bersaglio dell’opinione pubblica.

All’avvocato, questo, poco importa: mentre tutti si preoccupano delle apparenze e di salvaguardare l’immagine degli Stati Uniti, lui bada alla sostanza. Se la regia del film nella seconda parte latita di incisività a fare la differenza sono certamente le mani di Joel e Ethan Coen. Il loro contributo si palesa nei dialoghi incisivi e brillanti, in particolare per lo scambio di battute in uno degli incontri tra Donovan e Abel. Nel sottile humour nero che permea tutta la pellicola e nella caratterizzazione di tanti comprimari; in particolare nella parte ambientata a Berlino: la pittoresca famiglia di Abel è farina del loro sacco, così come i grotteschi negoziatori con i quali Donovan si trova a contrattare. Ma ad essere “coeniana” sino al midollo è soprattutto la figura del colonnello Rudolf Abel: personaggio sottilmente ironico e dall’aplomb ineccepibile, interpretato da uno stupefacente Mark Rylance, che, con una prova in sottrazione ed un interpretazione magnificamente compassata, rischia spesso di rubare la scena al pur ottimo Tom Hanks.

Con ll ponte delle spie Spielberg riesce a far incontrare la classicità cineastica di Frank Capra con la scrittura scoppiettante ed imprevedibile dei Coen, veicolando un messaggio politico potente, peccando alcune volte di buonismo, ma mai di superficialità. Perché, quando Donovan legge negli occhi di Abel la sua stessa umanità, scegliendo di fare la cosa giusta, relazionandosi al corso degli eventi come un uomo “tutto d’un pezzo”, non resta veramente nulla da aggiungere. Solo un sorriso accompagnato da uno scrosciante applauso.

 

Francesco Folletti 

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