Breve, brevissimo spaccato sul valzer: La Valse di Maurice Ravel

Continua il nostro minuscolo viaggio nel valzer: se per qualche sbadataggine vi siete persi la prima e la seconda tappa le troverete qui e qui. Se invece siete stati fedeli fino all’ultimo vi meritate una pinta di birra. Allacciate le cinture perché stiamo per infilarci in un gran casino dal quale si esce difficilmente integri. A ritmo di valzer, ovviamente.

La prima parola che viene in mente quando si parla di Novecento è, oltre Hitler, “innovazione”. Nel corso del secolo scorso infatti ogni singolo aspetto della vita e della cultura umana ha assistito a dei cambiamenti: dalla scienza alla vita quotidiana, passando per la società. Questa, in particolare, è stata stravolta e in alcuni casi anche distrutta: basti pensare soltanto al suffragio femminile, o alle lotte operaie per condizioni di lavoro più umane. I secolari valori dell’Ottocento, come la famiglia patriarcale e il rapporto borghesia-proletariato, iniziano ad andare incontro ad una crisi senza precedenti. Nemmeno le arti si salvano da questa crisi: noi ci soffermeremo, però, soltanto sulla musica. Non parleremo di Schoenberg e della dodecafonia (questo merita un discorso a parte che verrà affrontato un giorno, quando ne avrò il coraggio), ma ci concentreremo sul valzer e in particolare sulla sua simbologia sociale, sulla quale abbiamo riflettuto nell’articolo di domenica scorsa.

Maurice Ravel

Tra il 1919 e il 1920 il compositore francese Maurice Ravel compose un brano per orchestra, ma anche per pianoforte solo, dal semplice titolo La Valse, “il valzer” appunto. Già dal 1906 aveva in mente di comporre un valzer sullo stile di quelli di Strauss per un balletto, ma la Prima guerra mondiale cancellò le sue idee (e il balletto). In seguito Ravel riprese l’idea originaria, trasformando il valzer nell’emblema della società borghese prebellica, uscita dalla guerra completamente stravolta e senza più certezze. Ascoltiamo insieme il perché qui oppure qui (ma potete anche guardare il balletto qui, per farvi un’idea ancora più chiara).

L’introduzione è affidata al basso che scimmiotta quella classica del valzer: una fanfara grottesca invita gli spettrali ballerini a prendere posizione. Il tema allegro del valzer compare timido in mezzo al caos, così come il flebile tentativo della borghesia di ignorare la tragedia appena avvenuta faceva capolino tra le macerie. In città si torna a ballare senza preoccupazioni, mentre una minaccia ancora più grande danza insieme a loro e ride della loro cecità. Il tempo in tre quarti del valzer, però, prende sempre più coraggio, fino a sovrastare l’oscurità della guerra. L’illusione è momentanea: i ballerini fanno finta che la società sia rimasta la stessa e ignorano il grido delle masse oppresse che, sotto i loro piedi, sta meditando vendetta (sono pur sempre gli anni dei bienni rossi e neri in Europa). Con complicati accordi i bassi fanno sentire la loro impetuosa presenza, mentre gli acuti stanno in punta di piedi e saltellano nel tentativo di districarsi dalla massa oscura. E’ un gioco dialettico tra le due forze: il menefreghismo benpensante e la scioccante verità. Gioco che continua a lungo, ma è chiaro che la prima forza è destinata a soccombere.

Gretchen Hall nei panni di Nora

Ravel inserisce ne La Valse molti climax, che vengono interrotti sul più bello dalla monotona melodia del valzer che cerca insistentemente di prevalere e di cancellare ogni tentativo di affermazione personale, nascondendo ogni cosa sotto una coltre di conformismo. A proposito, ogni volta che ascolto La Valse mi viene in mente Nora Helmer di Casa di bambole di Ibsen (1879), un dramma che ha come tema l’emancipazione femminile e più in generale la ricerca della libertà fuori dalle sterili e false convenzioni sociali: Nora, qui rappresentata dal tema del valzer, è rinchiusa nelle regole borghesi che lei crede di accettare e, giocando e saltellando come un’allodola, cerca di ignorare costantemente i moti di ribellione che la attraversano.

Il valzer nel frattempo diventa sempre più caotico e irriconoscibile: solo qualche sprazzo tematico riesce ad emergere e a non morire soffocato. Ravel fa affidamento sul continuo gioco di climax che salgono e scendono senza fine, simili alle coppie che continuano a roteare su se stesse senza posa. L’ultimo climax viene rotto da una serie di glissando che distruggono il valzer, lasciandolo ad agonizzare. La lunga coda somiglia ad una danza macabra dove migliaia di scheletri e demoni vorticano furiosamente tra le fiamme dell’inferno. Finalmente la piccola Nora si rende conto della grande menzogna in cui vive e, così come suggerisce Ravel, dice con fermezza il suo no, e si eclissa dalla società, cercando se stessa. E’ curioso che l’ultima battuta de La Valse sia l’unica non in tempo tre quarti: una definitiva uccisione del valzer.

La Valse fa una certa impressione, non solo per la sua struttura ma anche per la complessità tecnica. Assistere ad un’esecuzione dal vivo (ed avere anche la fortuna di vedere le mani del pianista) è un’esperienza che lascia stravolti. Quando ascoltai Cominati alla Chigiana lo scorso dicembre (ho parlato del concerto in questo articolo) rimasi letteralmente senza fiato. Era sconvolgente. Se vi capita l’occasione di ascoltare La Valse dal vivo non perdetevela e annotatevi su un foglietto le vostre impressioni. Se poi volete rendermi partecipe dei vostri pensieri al riguardo sotto l’articolo troverete uno spazio bianco dove potrete dare sfogo alla vostra mente.

Il breve, brevissimo spaccato sul valzer finisce qui, ma il viaggio continua!

Federica Pisacane

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