Teatro

“Bartleby, lo scrivano” al Teatro dei Rinnovati

Cosa succede quando un impiegato docile e laborioso, d’un tratto s’oppone alla richiesta del suo datore di lavoro, senza alcuna ragione? Questo è il punto di svolta del racconto di Herman Melville, scrittore ben più celebre per “Moby Dick”, nel lungo racconto “Bartleby lo scrivano: una storia di Wall Street.”

L’adattamento teatrale, in scena dal 14 al 17 Febbraio al Teatro dei Rinnovati, curato da Francesco Niccolini, è talmente fedele all’originale che pare di assistere a una lettura ad alta voce della stessa novella.


LA TRAMA

La scena d’esordio rende bene l’idea, attraverso un frenetico susseguirsi di gesti, di una giornata tipo nello studio di un avvocato di Wall Street, all’incirca nella metà dell’Ottocento.

Cinque personaggi la animano: i tre scrivani Ginger, Turkey e Nippers e l’irriverente signora della pulizie, oltre allo stesso avvocato (il cui nome resta anonimo).

Bartleby ( impersonato da Leo Gullotta)

La monotonia del quotidiano, scandita dalle manie e dai vizi di ognuno dei collaboratori, è sconvolta dall’assunzione di Bartleby. Il personaggio, interpretato da Leo Gullotta, si mostra sulle prime un gran lavoratore, silenzioso e tenace, dallo straordinario talento nella copia di documenti. Finchè, alla richiesta dell’avvocato di aiutarlo a correggere i documenti che lui stesso ha trascritto, si rifiuta.


I WOULD PREFER NOT TO

L’ostinata opposizione è data da un semplice, beneducato, “Avrei preferenza di no”. E questa frase, che lo scrivano ripropone come un mantra, ha un effetto tagliente nella coscienza dell’avvocato-direttore. È posta con gentilezza, garbo, rispetto. Esprime una scelta a cui non si può opporre nessun ordine.

Non necessita di scuse, denota franchezza e ignora la spavalderia. Ma da richiesta timida e perdonabile, diviene un motto beffardo quanto curioso; a lungo andare una richiesta che ha dell’insolente; infine un’arma di potere. La vittima è proprio il titolare avvocato, uomo dal cuore fragile e acuto, che lontanissimo dallo stereotipo dell’insensibile datore di lavoro, si pone un interrogativo inaspettato: chi ha l’obbligo di fare il bene? O ancora: perché rispondere col male a colui che nessuno nuoce?

Bartleby rinuncia infatti al suo lavoro, ma chiede di vivere innocuamente nel suo ufficio, poiché senzatetto; nient’altro.


BARTLEBY: L’ADATTAMENTO

La scenografia è quasi la stessa per tutta la rappresentazione, l’ufficio dell’avvocato, attorniato dalle scrivanie dei suoi scrivani. La recitazione, le battute, i dialoghi appaiono banali screzi tra colleghi. La vicenda è statica; l’umorismo velatissimo. Non vi è ingombro di alcuna emozione, che sia pietà, commozione, divertimento o trasporto. Ed è proprio in questa immutabile stabilità, che la richiesta di Bartleby spezza l’ ordine prestabilito della routine, e mette in bilico la banalità dell’ovvio.

Quanto a Bartleby, non è un inetto né un mediocre: semplicemente è. Pure il suo lasciarsi morire non ha ripercussioni né conseguenze, non è subordinato a un ideale, non è in fondo neanche una scelta.

Ed è forse questo il motivo per cui non arriva mai a conquistare il pubblico: rimane sulla scena come un estraneo. Non è indifferenza quella che suscita, bensì distacco, dovuto all’incapacità di entrare nella bizzarria del suo mondo, e assecondarla.

E’ proprio l’avvocato che sembra riuscire nel compito: non fa altro che difendere l’onestà di quello che ormai considera un amico. A tale innocenza, vuole imporre una ricompensa: che neanche la bontà stessa è in grado di ripagare.

Il finale è veloce, una parte del passato del Bartleby emerge in poche battute, precipitose, urlate, che lascia lo spettatore smarrito. Emerge che lo scrivano, prima occupato in un ufficio postale, e in seguito licenziato, lavorasse nel reparto di lettere smarrite. Dead letters: che egli sia proprio una di esse?


Elisa Agostinelli

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