La rassegna apre uno scorcio sulla poesia contemporanea italiana.
Tre gli incontri proposti per il ciclo Altri versi – con altrettanti poeti – a partire da oggi 13 novembre alle ore 18.00 presso la ex-cappella del San Niccolò (via Roma 56).
Gli eventi sono a cura di Francesca Del Zoppo, Daniela Gentile e Francesca Santucci, con il sostegno del Dipartimento di Filologia e Critica delle Letterature Antiche e Moderne, del Dottorato di Ricerca Internazionale in Filologia e Critica e di Samarcanda Gallery.
Nel corso del primo incontro Francesca Santucci e Stefano Dal Bianco – docente di Poetica e stilistica – dialogheranno con Massimo Gezzi, poeta, saggista e traduttore di origini marchigiane; per ulteriori informazioni biobibliografiche rimandiamo al sito dell’autore.

Foto di Daniele Maurizi.
Gli appuntamenti di altri versi proseguono il 21 novembre, con ospite Gian Mario Villalta e interventi di Daniela Gentile e Stefano Dal Bianco, e il 29 novembre, con ospite Elisa Biagini e interventi di Francesca Del Zoppo e Guido Mazzoni.
Proponiamo qui di seguito una selezione di liriche di Massimo Gezzi, operata assieme alle curatrici della rassegna.
Reperti da L’attimo dopo (2009)
Nella terra si leggono moltissime
vicende, mi accorgo mentre faccio
un sentiero di campagna che non avevo
più percorso: i tronchi segati al pari
del terreno resistono per secoli;
qualche volta riaffiora un oggetto
che pare extraterrestre, tanta è la distanza
che lo separa dal presente. Un giorno, per esempio,
ho trovato nel piccolo giardino
antistante la mia casa una macchina
per cucire in miniatura, ciarpame o giocattolo,
nera e scrostata ma del tutto
conservata, che a pulirla avrebbe dato
un’eleganza démodé ad un mobile
antico. Più di rado si rinvengono
coriandoli di carta, a volte di giornali pornografici,
altre di firme e scritture impronunciabili,
slavati dalle bave o rifilati
da chissà che mandibola paziente.
Io so anche dire
dove sono tumulati i miei due cani, bianchi
e poderosi, seppelliti da mio padre
dopo anni di passeggi serali
e di carezze. Chissà cosa resiste, adesso,
di quei corpi, se i lunghi filamenti del pelo
o le zanne dei canini, oppure se è come
se non fossero affatto transitati
in quella terra, stinti del tutto, divorati da insetti
che magari avrò schiacciato senza troppa
attenzione, non capendo che nel cric
di quegli scheletri echeggiava il guaito
familiare dei miei cani, la saliva che lasciava
minuscoli globi più scuri sul cemento,
brevi costellazioni evaporate
in un secondo, subito sparite in altre forme
anche loro.
***
Traccia n. 4 da Il numero dei vivi (2015)
Una delle tracce è sulla nostra capacità
di «abitare poeticamente la terra»
(Morin, e molti altri – troppi? – prima di lui).
«Poeticamente, dice?». Sono gli occhi
di una ragazza che quasi sbigottisce,
quando legge quella frase.
«Anche poeticamente», preciso: «Anche. Non ti pare?».
«Mah», risponde subito. «Magari qualche volta.
Ma solo per un attimo. E per poche persone».
Per poche, già. Non ci avrà mai pensato, Morin,
a limitare quella frase? A inserire un inciso,
a precisare che magari per qualcuno
– per troppi? – la poesia è appena un lusso
o un impaccio, quando dietro uno sguardo
mezzo ironico e mezzo serio si intuisce
che qualcosa è accaduto, o che qualcosa…
«Per pochi, dici bene. E allora
spiega perché è così. Contestalo,
il filosofo, se non dice la verità».
Risponde e abbassa gli occhi, inarcando
un po’ il labbro:
«No, prof, grazie: ho scelto un’altra traccia».
***
Ultima domanda da Il numero dei vivi (2015)
Io non so chi vivrà dentro quei nuovi appartamenti.
Alcuni sono arrivati, altri arriveranno.
Altri se ne andranno prima del dovuto.
Ci incroceremo giù al parco,
davanti al lago, dentro una scuola
o un supermercato. Ci scambieremo persino
qualche parola, un giorno o l’altro.
Non siamo imperdonabili, eppure questa luce
che taglia il versante del monte
prometteva qualcos’altro, tempo fa,
e l’ombra che proiettava dietro a tutti
era la gioia. Adesso attendiamo
altre ombre per contare
di vederci un po’ più spesso, di conoscere
le facce dei figli, di sapere dov’è andato
a finire quel cane
che metteva allegria solo a guardarlo.
Ma sperare in un’ombra, una minaccia
che ci renda meno soli, più vicini,
non possiamo. Il presente è una speranza
che contraddice se stessa, bene e male
che si elidono, il sospetto di non potere,
non sapere, non volere
se non essere. Siamo?
Fabiana Di Mattia.