Non poteva durare ancora a lungo la cosiddetta “fase di transizione” in casa Pixar, non così tanto da far credere che dietro a tale nomea non si celasse, neanche troppo velatamente, una carenza di inventiva insolita per una casa di produzione che fin dalla nascita ha fatto della creatività la propria prerogativa.
Da un lustro a questa parte, ovvero da quando il terzo capitolo di Toy Story chiudeva una saga destinata a restare per sempre nella storia del cinema (oltre che nei nostri cuori), Lasseter e soci sono stati colti dalla più classica delle crisi di ispirazione, la quale ha condotto gli studios di Emeryville a rifugiarsi dietro uscite poco audaci come Brave o come Cars 2 e Monsters University (rispettivamente un sequel e un prequel che lasciano il tempo che trovano). Era dunque rinviato a data da destinarsi il film in grado di ricordarci che quando si parla di cinema di animazione l’associazione con il nome Pixar dovrebbe essere la prima a palesarsi nella nostra mente (Studio Ghibli permettendo). Giunti ai primi bagliori di una nuova stagione cinematografica, possiamo affermare con certezza che il momento è invero arrivato: è Inside Out il film prescelto, il capolavoro capace non solo di riportare la Pixar ai suoi standard ma di riuscire a settarne di nuovi per gli anni a venire.
Si deve in particolar modo a Pete Docter, già sceneggiatore di molti dei precedenti film Pixar, l’originalità di un soggetto probabilmente destinato a segnare l’immaginario collettivo: Gioia, Tristezza, Paura, Disgusto e Rabbia sono i cinque personaggi che animano la trama del film, il quale si svolge prevalentemente in un quartier generale nella quale ognuno di essi presiede una propria postazione e al quale spetta un rispettivo ruolo.
Non ci sarebbe nulla di così esaltante se questo quartier generale non fosse che la mente di una bambina di nome Riley e se questi personaggi non fossero (ma l’avevate capito dai nomi) le 5 emozioni principali che guidano la nostra protagonista nella vita di tutti i giorni influenzandone le azioni e i pensieri. Gioia è la prima a manifestarsi (seguita poco dopo da Tristezza) ed è anche quella che ha il compito di far sì che la “macchina Riley” funzioni a dovere, gestendone con parsimonia i ricordi che albergano nella memoria a lungo termine.
Fra questi ricordi vi sono quelli base, destinati a formare quella che sarà l’identità personale della bambina mediante il collegamento con le “isole della personalità”, le quali variano da persona a persona in base alle esperienze vissute e alla natura dei ricordi accumulati in archivio. Ma cosa intendiamo quando diciamo che il compito di Gioia è quello di far “funzionare” Riley? Da emozione primaria e dominante, l’intento di Gioia è evidentemente quello di continuare a prevalere, garantendo così che Riley sia sempre felice e spensierata.
Come ognuno di noi ha provato sulla propria pelle, il passaggio dall’età dell’infanzia a quella dell’adolescenza e così via fino all’età adulta fa sì che questo scenario resti utopico: ogni emozione contribuisce alla formazione dell’identità, ognuna di esse costruisce qualcosa anche quando sembra che la distrugga, ciascuna è corresponsabile della nostra crescita individuale. Se dovessimo riassumere la trama di Inside Out, lo faremmo dunque con due parole: Riley cresce.
Vorrà forse dire che nel film non accade nulla? Nient’affatto: l’evento che segna il distacco emotivo di Riley (individuabile nel trasloco dal Minnesota a San Francisco) si traduce a livello delle emozioni nella fortuita caduta di Gioia e Tristezza al di fuori della stazione di comando, artificio diegetico questo che serve a conferire dinamismo ad una trama che se superficialmente ci mostra la solita ed irrinunciabile componente action (necessaria a divertire e a far stare sulle spine i più piccoli), a livello più profondo consente allo spettatore più maturo e adulto di accompagnare Gioia e Tristezza (oltre che l’indimenticabile amico immaginario Bing Bong) nel viaggio all’interno dei luoghi più reconditi della mente umana quali la memoria, il subconscio e l’immaginazione, compiendo così una vera e propria ricerca del proprio tempo perduto.
La volontà di soddisfare diversi tipi di pubblico senza venir meno alla propria poetica si realizza in maniera anche più netta che in passato: ci si diverte tanto, si riflette ancor di più, ma a conti fatti ai bimbi viene concesso davvero poco se si escludono soluzioni tendenti alla semplificazione (grafiche: il differente cromatismo delle 5 emozioni, narrative: un certo schematismo nella prima parte), mentre al contrario si fa notare la strizzata d’occhio al cinefilo incallito (la citazione a Chinatown è per veri intenditori).
Semplice ma complesso, immediato ma profondo, sintesi perfetta dei processi emotivi che ci contraddistinguono, Inside Out dimostra una volta di più di come il cinema d’animazione e il concetto di autorialità possano andare di pari passo.
Voto: 9
Piero Di Bucchianico
Fonte immagini: Google