uRadio verso gli Oscar 2017: Moonlight

Moonlight” è un film del 2016 scritto e diretto da Barry Jenkins, basato sull’opera teatrale “In Moonlight Black Boys Look Blue” di Tarell Alvin McCraney.

La pellicola tratta della storia del giovane afroamericano Chiron, il quale vive in un quartiere di Miami segnato da droga e violenza. Attraverso le tre età della vita, infanzia, adolescenza ed età adulta, Chiron lotta quotidianamente per trovare la sua strada, scoprendo se stesso, la sua sessualità e il complicato amore per il suo migliore amico.

Il film è stato presentato in anteprima mondiale al Telluride Film Festival e successivamente al Toronto International Film Festival, il 10 settembre, e ad ottobre al New York Film Festival. Inoltre, è stato scelto come film d’apertura della Festa del Cinema di Roma 2016.

Ha ricevuto otto candidature agli Oscar 2017: miglior film, miglior regista a Barry Jenkins, miglior attore non protagonista a Mahershala Ali, miglior attrice non protagonista a Naomie Harris, migliore sceneggiatura non originale a Barry Jenkins e Tarell Alvin McCraney, miglior montaggio a Joi McMillon e Nat Sanders, Migliore fotografia a James Laxton e migliore colonna sonora a Nicholas Britell.

Nicola Carmignani. “Moonlight” è un film abile più nel raccontare un mondo che non nel portare avanti una storia. Ciò che rimane, a visione ultimata, è la sensazione di irredimibile disagio che i quartieri bassi di Miami suscitano e l’inesorabilità dei tragici destini di chi vi abita. Ci viene spiegato più questo, ovvero che ognuno degli individui che conosciamo vive una vita di compromesso con il disagio, più che la storia in sé del protagonista Chiron, che pure è esclusivo centro di tutto il racconto. Sappiamo del suo dramma, ma questo ci viene offerto come qualcosa di scontato e così si finisce ad osservare più come il mondo si comporta con lui e come lui gli reagisce che il personaggio vero e proprio. Questa logica sottrattiva, per la quale vediamo solo gli effetti della realtà e non la realtà in sé, finisce per minare la continuità del racconto, tanto che giunti alla conclusione – anticlimaticissima – la prima cosa cui si pensa è se davvero il film sia già finito o se non gli manchi qualcosa.
La logica del “non detto” ha in verità anche aspetti positivi: i silenzi e i dubbi caricano le immagini di forza evocativa e potenza visiva, aiutati da una regia che non risparmia qualche virtuosismo e da un sonoro insinuante quanto basta, dandoci comunque momenti di alto cinema e commozione – la sequenza in cui Chiron impara a nuotare su tutte -.
Il problema di fondo è quindi la sceneggiatura, che lascia troppi spazi vuoti per pretendere di raccontare davvero l’evoluzione dei personaggi, per quanto interessanti essi siano – lo spacciatore/padre adottivo, la madre degenere, l’intimo amico d’infanzia -. Lo stesso Chiron vive in fondo una sola, vera scelta durante tutto il film, ma anch’essa, benché segnante da molti punti di vista, non influisce poi granché sulla figura del protagonista. Un buon film con bravi attori, da vedere però più per la messinscena filmica che per la storia: La La Land dovrebbe dormire sonni tranquilli, per la statuetta più ambita.


Giada Coccia. La triade che “Moonlight” ci presenta, fatta d’infanzia, adolescenza ed età adulta, colpisce sia nella sceneggiatura di Barry Jenkins, elaborata sulla base dell’opera teatrale “In Moonlight Black Boys Look Blue” di Tarell Alvin McCraney, sia attraverso l’intensità dei tre attori che interpretano il piccolo, il giovane e il grande Chiron (Alex Hibbert , Ashton Sanders e Trevante Rhodes). Il racconto, che procede per ellissi e in ordine cronologico, distingue con tre nomi le tre fasi della vita di Chiron (Little, Chiron e Black) e i tre attori, che non si sono mai incontrati durante le riprese affinché non si influenzassero a vicenda, hanno interpretato ognuno la loro parte di storia, di verità, con un’aderenza al personaggio tale da non avere difficoltà a vederli come un’unica personalità con una precisa caratterizzazione. L’ostinato e fragile mutismo di Chiron, per esempio, così dolce in Alex, diventa violento in Ashton, quasi una forma di ribellione adolescenziale che muta definitivamente in Trevante diventando parte di quell’uomo che è stato giovane e prima ancora bambino silenzioso. La fragilità del Piccolo nella prima parte, chiamato così contro la sua volontà, diventa presa di coscienza del sè nella seconda parte attraverso il nome proprio Chiron, ma la fermezza acquisita rimane superficiale in quanto torna la vulnerabilità di uno pseudonimo nella terza parte finale: Black. I nomi rimangono etichette che gli vengono date e Chiron rimane incapace d’identificarsi senza alludere alle altre etichette della sua vita: frocio e negro. Sembra incredibile riconoscere Piccolo in Black, comprendere come sia cresciuto quell’aspetto rude nel bambino che ballava e si nascondeva dai compagni, ma la caratterizzazione procede lineare e credibile grazie a una delle scene più autenticamente violente del film, quando Chiron adolescente decide di reagire, costi quel che costi; decide di sopravvivere diventando duro, nascondendo la sensibilità, diventando come il mondo si aspetta diventi.
Il film, tuttavia, è intriso di speranza e questa malinconica idea di crescita colorata di blue, tristezza che un nero omosessuale di Miami prova per non potersi vantare delle sveltine in bagno con vogliose ragazze, si contraddice subito e attraverso le parole dell’amico d’infanzia Kevin (André Holland) inizia a decantare la fedeltà a se stessi, criticando con sarcasmo denti d’oro e macchine costose.
Jenkins è attento a evitare banalità o stereotipi, equilibrato nella narrazione dell’alterità e nell’uso del cromatismo con cui gioca moltissimo; il degrado urbano e umano rimane forse superficiale e attento a non creare traumi in uno spettatore che gode di un paesaggio ripulito in una storia che di violento ha solo le parole. Il tema della droga e dello spaccio sono affrontati con un intimismo che svuota il genere del gangster e lo riempie dei drammi e turbamenti di una famiglia allargata. Infatti, ciò che, per volontà dello stesso Jenkins, rimane centrale nella storia è il rapporto con la famiglia e la difficoltà della relazione tra genitori e figli.
Se classica rimane la dinamica con la madre drogata e incapace di crescere un figlio, ma pronta una volta in riabilitazione a farsi perdonare e amare, meno scontato è il rapporto con la figura paterna di riferimento, lo spacciatore Juan (Mahershala Ali), che coraggiosamente prende sotto custodia il bimbo impaurito con un atto d’eroismo che vacilla nella scena di pianto davanti alla consapevolezza di non poter essere un buon modello. L’erotismo, il ruolo sociale e il cambiamento portano avanti la splendida scena finale in un lungo dialolgo tra Chiron e Kevin, in cui la forza emotiva si libera con la delicatezza che pervade l’intero film e ciò che ci rimane è una storia sentimentale di cui c’era assoluto bisogno.

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