uRadio verso gli Oscar 2017: Barriere

Barriere” è un film del 2016 diretto e interpretato da Denzel Washington.

La pellicola è l’adattamento cinematografico dell’opera teatrale del 1983, vincitrice del premio Pulitzer per la drammaturgia, Fences di August Wilson, accreditato come sceneggiatore del film nonostante sia morto nel 2005.

Il film ha ricevuto quattro candidature agli Oscar 2017: miglior film, miglior attore a Denzel Washington, miglior attrice non protagonista a Viola Davis, migliore sceneggiatura non originale ad August Wilson.

Nicola Carmignani. Non giriamoci attorno: “Barriere” è un film terribilmente noioso. Il lavoro di regia di Washington è talmente didascalico da risultare quasi impalpabile e, sebbene si comprenda il motivo della sua scelta – Barriere nasce come pluripremiata scrittura teatrale, tentare di restiruirle l’immediatezza del palcoscenico minimizzando l’intervento registico è più che lecito, ma il risultato è talmente asciutto da sfociare nella monotonia.
Sia ben chiaro, rendere efficacemente in chiave filmica “Barriere” è impresa difficilissima: la storia si sviluppa attraverso monologhi estenuanti, ancorata geograficamente in un unico e angusto luogo e vivendo di pochissimi, benché cruciali, snodi di trama. La scelta di basare la pellicola sulla valorizzazione delle prove attoriali era quasi scontata e in questo senso il film ci restituisce due indimenticabili figure: Denzel Washington e Viola Davis sono dei giganti, polarizzano la vicenda attorno al loro carisma, padroneggiano il copione da veri virtuosi e sono il vero motivo per cui questo film, alla fine, si regge in piedi. Il resto del cast ha inevitabilmente un ruolo di contorno, ma non delude: da segnalare, in tal senso, il fatto che quasi tutti gli attori avessero già portato in teatro “Barriere” in una messa in scena del 2010, esperienza che si percepisce fortissima.
L’angusto spazio vitale che ospita la vicenda è, nel bene e nel male, una conquista della vita del severo protagonista e sta alla consorte cercare di evitarne la disgregazione, a fronte delle asperità caratteriali che la vita ha riservato al marito. La staccionata che impone di costruire alla famiglia è metafora dello sforzo collettivo fatto per stare assieme, racchiudendosi in uno spazio intimo e protetto, dal quale però non si può che fuggire di fronte alle vessazioni di un padre padrone, che pure le somministra in buona fede.
Barriere parla di forza di volontà, di affetti, di sforzi comuni e di incompatibilità: una storia molto bella, quasi impossibile per la sua complessità ed estensione da comprimere in un film. Washington ha provato l’impresa e, benché il risultato non sia dei migliori, almeno ci ha regalato personaggi veramente memorabili: un paio di Oscar agli attori sarebbero tutt’altro che uno scandalo.


Giada Coccia. “Barriere” è un titolo probabilmente fuorviante, che richiama il campo semantico delle divisioni, dei limiti; è un termine militare, forte, che per nulla contiene l’emotività del dramma familiare che Denzel Washington gira, ma principalmente recita.
Fences, il titolo originale, è invece un termine cristallino che richiama la costruzione di una recinzione che il protagonista, Troy Maxson (Denzel Washington) fa per buona parte del film. Questa barriera di legno sarà simbolo dei limiti della casa e della famiglia che August Wilson esplora nella sua opera teatrale Fences, vincitrice nel 1987 del Pulitzer Prize for Drama e del Tony Award for Best Play, da cui il film prende la sceneggiatura e anche gli attori. Infatti il revival dell’opera di Broadway del 2010 vedeva proprio Denzel Washington e Viola Davis nei panni dei coniugi Maxson. Non ci stupisce vederli così affiatati e intensi in una interpretazione improbabile da aspettarsi in un film hollywoodiano; così come l’origine teatrale rende maggiormente comprensibile l’ambientazione che scorre solo tra la casa e la strada e l’assenza fisica di alcuni personaggi chiave. Wilson, morto nel 2005, voleva che un’eventuale trasposizione cinematografica fosse girata da un afroamericano e solo con il fortuito interessamento di Washington si è potuta portare questa storia sul grande schermo.
Il film esplora con discrezione la pessima condizione dei neri e delle donne nell’America degli anni ’50 e sviscera contemporaneamente Troy, padre e marito la cui ombra tossica pesa sulle persone care che lo circondano. La recinzione allegorica e fisica che Troy costruisce con fatica serve a non far entrare la Morte nella sua vita (“Mister Death”, la chiama), ma come l’amico Bono (Stephen Henderson) gli fa notare, serve anche a non far uscire le persone che sono già dentro. E’ simbolo per la moglie Rose (Viola Davis) di un luogo che vorrebbe chiuso, di una famiglia che vorrebbe unita sotto lo stesso tetto attraverso un complicatissimo legame di sangue. E’ anche simbolicamente la barriera tra Troy e il figlio, che mai vedremo aiutarlo nel costruire, e più in generale tra Troy e il mondo. La staccionata, che servirebbe come protezione di un luogo sicuro e amato, erige, invece, un ambiente asfissiante e tossico.
Di Troy impariamo a conoscere debolezze e cattiverie senza mai vederlo totalmente malvagio o recuperabile, ma la recinzione viene eretta e lui rimane fermo accanto alla staccionata di legno fino alla fine. Se questo lo renda un pilastro della famiglia o la sua maledizione, resta volutamente ambiguo.

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