Rewind

Siamo nel 2015. La tecnologia, attraverso costi contenuti e semplici modalità d’utilizzo, può essere sfruttata a sostegno o in sostituzione del lavoro dell’uomo.  La garanzia di imparzialità e la riduzione al minimo del margine d’errore sono caratteristiche che ne hanno favorito una diffusione sempre maggiore in tutti i campi. Non ultimo in quello dello sport, che soprattutto nel professionismo, si pratica a velocità che impediscono all’occhio umano dell’arbitro di valutare con certezza situazioni al limite.

Che siano individuali o di squadra, sport come il calcio, la pallacanestro, il rugby, la pallavolo ed il tennis vivono di risultati che dipendono non solo da chi si sfida, ma anche dalle decisioni di coloro che vengono designati per prendere decisioni.

È per i motivi sopracitati che nella pallacanestro si è deciso di introdurre un sistema che consenta di giudicare attraverso i replay se, nelle fasi finali delle partite, un canestro arrivi con un tiro effettuato prima dello scadere del tempo a disposizione o dietro la linea dei tre punti. Se un fallo sia semplice, tecnico o antisportivo. Se la rimessa sia di una o dell’altra squadra. O se un giocatore abbia pestato o meno la linea laterale o quella di fondo.

Motivi che hanno spinto l’IRB (International Rugby Board) a permettere all’arbitro di consultare il video per sapere se una meta sia stata segnata e se l’azione che ha portato alla realizzazione si sia svolta regolarmente.

Anche nel tennis si concede la possibilità al giocatore di chiamare un numero prestabilito di “challenge” (o “occhio di falco”) per confermare o smentire la decisione del giudice di linea su una palla che a quasi 200 km/h viene chiamata fuori o dentro. Così come nella pallavolo per contestare il giudizio degli arbitri su un tocco a muro, su un’invasione o sul tocco della palla sull’asticella e sulle linee che delimitano il perimetro del campo.

Il tutto grazie all’installazione di telecamere che in pochi secondi impediscono di commettere errori che spesso pregiudicano singole partite o stagioni intere. Una misura per garantire la regolarità dello svolgimento di tutte le gare all’interno di una competizione. Un provvedimento che nel calcio, soprattutto in quello italiano, non è ancora stato preso.

I primi spiragli sembrano essere arrivati dalle parole del presidente federale Carlo Tavecchio sull’utilizzo nel prossimo campionato della “goal line tecnology”, che permetterà finalmente di sapere con certezza se la palla abbia varcato o meno la linea di porta. Acqua nel deserto per il calcio nostrano sempre più in declino, per colpa anche (ma non solo) dei continui scandali che si susseguono di anno in anno.

Da “Calciopoli” al ritorno dell’evergreen “calcioscommesse”, ultimamente non si fa altro che far perdere credibilità ad un campionato il cui destino sembra stabilito a tavolino anziché sul campo. Più che di tecnica e tattica, si sente sempre più parlare di diritti televisivi e di polemiche arbitrali.

Negli ultimi anni il dibattito “moviola si – moviola no” ha diviso l’opinione pubblica. Da una parte coloro che, attaccati alla tradizione, vedono un calcio in cui l’errore umano è parte integrante del gioco, che con le interruzioni per i replay verrebbe spezzato e totalmente snaturato. Dall’altra chi sostiene che sia l’unica soluzione a tutti i problemi e che quindi debba essere applicata per ogni decisione opinabile.

Probabilmente la verità, come spesso accade, sta nel mezzo. Il rischio di snaturare e spezzare troppo frequentemente il ritmo di una partita esiste, ma potrebbe essere eliminato stabilendo quali siano le situazioni per cui è possibile chiedere l’intervento della moviola. Perché esistono azioni in cui si decide in base alla volontarietà od involontarietà di un calciatore, che sicuramente una macchina non può giudicare con certezza. Ma anche altre in cui un tocco impercettibile, un fuorigioco dubbio e un piede sulla linea che delimita l’area, non risultano chiari a velocità naturale ma, citando un cantautore dei giorni nostri, “si vedono solo con lo scorrimento lento” e non lasciano spazio alle interpretazioni.

Un’occhiata veloce ad un video e la scomparsa, una volta per tutte, di quella terribile parola, “malafede”, permetterebbero, aldilà della demagogia, di restituire il calcio a chi appartiene. Non ai presidenti, non alle televisioni private, ma ai tifosi. Perché se questo sport è parte integrante della cultura di molti paesi, è grazie alla passione e alla speranza di chi crede che prima o poi il suo momento arrivi. Ma soprattutto che, in caso contrario, non sia un’ingiustizia ad impedirglielo.

Leonardo Fiaschi

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