Referendum No-Triv: intervista al comitato Ottimisti e Razionali

Con l’avvicinarsi del referendum No-Triv del 17 aprile uRadio, dopo l’articolo introduttivo pubblicato qualche tempo fa, ritorna sul tema ascoltando la voce di uno dei protagonisti del dibattito. Siamo riusciti a metterci in contatto con il comitato Ottimisti e Razionali e abbiamo avuto modo di approfondire l’iniziativa del gruppo e il messaggio che porta con sé grazie all’intervista concessaci da Matilde Giovani, in quest’occasione portavoce del comitato. Matilde lavora in uno studio legale e si occupa di infrastrutture, in particolare di diritto marittimo, e fa parte dell’Assemblea nazionale del Partito Democratico.

Ciao Matilde, intanto ti ringrazio a nome di tutta uRadio per il tempo e la disponibilità concessaci. La prima cosa che ti chiedo riguarda la storia del comitato: da chi è partita l’iniziativa?

Studiosi, professionisti, giornalisti. Insomma, chiunque in possesso di conoscenza e sensibilità nei confronti dei temi di cui tratta il referendum si è mostrato solidale con l’iniziativa. La necessità di creare il comitato è nata per offrire un bilanciamento con l’informazione, a volte non proprio accurata, fatta dal fronte ambientalista che spinge per il “Sì” al voto del 17 aprile.

Parliamo della denominazione del comitato. Perché definirsi Ottimisti e Razionali?

Non è altro che lo spirito del comitato. Di fronte all’allarmismo spesso mostrato nei confronti di questo genere di situazioni abbiamo voluto comunicare come ci sia bisogno di razionalità nel prendere delle decisioni così delicate e di ottimismo per quel che concerne la fiducia nella tecnologia, in particolare quella nostrana. Inoltre sia ben chiara una cosa: i membri del comitato sono ovviamente vicini alle questioni ambientali. Tuttavia si ritiene che non sia questo il sistema giusto per virare la rotta del Paese verso l’energia pulita: sarebbe più opportuno un confronto politico per implementare tutta quella che è l’economia verde, cosa che il nostro governo sta già attuando (si veda il Green Act e l’adesione al COP 21), e incentivarla tramite un confronto più costruttivo.

Qual è l’idea che ha l’opinione pubblica del comitato?

Ci chiamano casta, amici delle lobbies o portatori di interessi. Ma ovviamente non è vero: anche noi riteniamo che le energie pulite siano il futuro.

Il comitato per cosa spinge? Andare a votare e votare per il “No” o non andare a votare?

Il comitato spinge per non recarsi al voto. Ricordiamo che il referendum abrogativo necessita di un quorum per essere valido: in questo caso astenersi ha un senso se si ritiene il referendum in sé sbagliato. L’astensionismo nel referendum, contrariamente a quello nelle elezioni, è un dato politico diverso: è comunque una scelta funzionale e legittima.

Ma votare non potrebbe essere, in ogni caso, un utile esercizio democratico frutto di una scelta matura e ponderata?

Ovviamente. Anche votare “No” significa mettere nero su bianco la propria contrarietà al referendum. Sicuramente è un’opzione che non squalifica la posizione di nessuno.

Ci sono dei parallelismi con il referendum del 2011? Soprattutto per la campagna che riguardò l’eventualità di un’acqua completamente privatizzata.

C’è qualche parallelismo, anche se dobbiamo tenere a mente la differenza più macroscopica: questo è il primo referendum proposto dalle regioni e non tramite iniziativa popolare, come avvenne nel 2011. Personalmente l’esperienza del 2011 mi ha spronato ad approfondire i quesiti dei referendum e capire le conseguenze del mio voto. Come dicevi, nel 2011 si credeva che ci saremmo trovati di fronte ad un’acqua completamente privatizzata, cosa inesatta. In questo caso c’è da dire che siamo maturati nel capire cosa comporta votare in queste occasioni e il dibattito ne risente positivamente.

Quali sarebbero gli effetti collaterali del “Sì” al referendum?

Ovviamente l’Italia non rimarrebbe sprovvista di energia se dovessero venire meno le concessioni oggetto del referendum. Petroliere e gassiere, soprattutto quest’ultime, aumenterebbero il loro traffico nei nostri porti se queste risorse, ora disponibili, dovessero venire meno. Con tutti i costi in termini di sicurezza ambientale che ne deriverebbero. Tuttavia, sebbene scarse, le risorse che il nostro Paese autoproduce dovrebbero essere comunque motivo di orgoglio.

Parliamo di questioni più tecniche. Le risorse estratte sono tutte destinate al consumo interno? Di che numeri parliamo?

Tutte le risorse estratte sono destinate al consumo interno in quanto non abbiamo abbastanza volume per riuscire ad esportare. In percentuale la quantità di risorse estratte ammonterebbe all’11% del fabbisogno energetico nazionale e, solo nel 2014, ciò ha comportato un risparmio di 4 milioni e mezzo in bolletta.

Come funzionano le concessioni dei giacimenti?

Lo Stato dà la concessione dei suoi giacimenti ad una compagnia che deve seguire determinate regole per procedere allo sfruttamento delle risorse. La risorsa è, ovviamente, dello Stato e ad esso vengono pagate dalla compagnia le cosiddette royalties. Tuttavia ricordiamo, la maggior parte dei giacimenti viene sfruttata dall’ENI o da società con joint venture in Italia. Infatti quando mi dicono che vogliamo “fare dei regali ai petrolieri” sorrido: non c’è mica Rockfeller in Italia! Inoltre ciò che una società guadagna viene reinvestito in posti di lavoro e fa guadagnare lo Stato.

Non rinnovare queste concessioni comporterebbe anche colpire la ricerca?

Per continuare a produrre idrocarburi e far funzionare il sistema-Italia rispetto alla produzione c’è bisogno di puntare costantemente sull’innovazione. Così facendo il lavoro diventa più verde, sicuro e parte degli guadagni, cosa che viene spesso lasciata in disparte, viene destinata in investimenti in energia pulita.

È vero che le piattaforme sono utili, per quanto possa sembrare paradossale, al ripopolamento ittico?

Guarda, ti racconto delle cozze di Ravenna. Sai come nascono? Negli anni ’70, davanti alle coste di Ravenna (ma successe anche nelle Marche o in Abruzzo) si sono scoperti dei giacimenti di gas naturale e sono iniziate le procedure di estrazione. Una volta installata la piattaforma, a ridosso delle sue “gambe” che affondano nel mare, inizia a nascere un ecosistema marittimo ed è là che troviamo le cozze di Ravenna. Inizialmente venivano raccolte da una cooperativa che si occupava della pulizia delle gambe delle piattaforme. Qua apro una parentesi: la manutenzione delle piattaforme è un processo costante e meticoloso. Ricordiamo che più una piattaforma è sicura più si alza il suo ranking; è interesse della società mantenere elevati standard di sicurezza. Comunque, a un certo punto si è creata una cooperativa di pescatori che, una volta accortisi della buona qualità di queste cozze, hanno iniziato ad occuparsene.

Questo del ranking è un punto interessante, come funziona?

È importantissimo! Sappiamo benissimo della delicatezza dell’equilibrio marittimo e di questo le compagnie tengono conto. Senza tenere alti gli standard ambientali non puoi essere competitivo. La sicurezza, quella ambientale ma anche quella del luogo di lavoro, è fondamentale per una compagnia per ottenere le concessioni.

Secondo te in Italia si soffre della sindrome di NIMBY (acronimo di Not In My Back Yard, non nel mio cortile)?

È vero, c’è questa sindrome: ricordiamo che al di là dell’Adriatico ci sono piattaforme, croate o albanesi ad esempio, che funzionano e che funzioneranno a prescindere dall’esito del referendum. Si ripete un po’ la storia del nucleare: il “No” del 2011 sancì un Italia senza centrali nucleare che comunque troviamo al confine con la Francia o la Svizzera. Qua ritorna il tema dell’ottimismo, un ottimismo nei confronti delle capacità di un Paese che è già in grado di essere all’avanguardia in certi settori e che aiuterebbe a far diventare meno conservatrici le posizioni di molti ambientalisti.

C’è troppo integralismo nelle battaglie degli ambientalisti?

Ogni ambientalista sa che tutti i metodi di produzione energetica hanno dei rischi. Pensiamo ai dibattiti sulle pale eoliche per esempio: l’eolico viene criticato perché mette in pericolo l’avifauna di certe regioni. È chiaro che bisogna liberarsi di fonti sporche investendo sulle energie pulite, progressivamente, ma non è verosimile che ci sia una conversione totale dalla sera alla mattina. E c’è un’altra cosa che mi fa riflettere: a volte mi capita di confrontarmi con delle iniziative ambientaliste che riguardano delle azioni contro piattaforme. Ma questo iniziative non fanno altro che “attaccare” gente che sta solo facendo il suo lavoro: cerchiamo di evitare guerre tra poveri.

Come sta procedendo il dibattito?

Veniamo attaccati costantemente. Pensa, hanno hackerato un’altra nostra pagina (Non sprecare energia) che ha 123 mi piace (al momento dell’intervista ndr). Pensano che noi ci troviamo in chissà quale ufficio di chissà quale multinazionale. In realtà siamo molto itineranti e ognuno lavora da casa col proprio computer. Ognuno dei membri gira la sua regione di appartenenza e per il resto facciamo comunicazione sul web tramite Twitter, Facebook e sul sito nostro sito ufficiale. Siamo molto meno “casta” di quello che sembriamo! Molte delle persone che fanno funzionare il comitato sono ragazzi giovani, entusiasti e prearati su questi temi (c’è anche chi è ingegnere ambientale).

Effettivamente, sta avvenendo un confronto costruttivo tra le due anime del referendum?

Premetto che, secondo me, il referendum poteva essere fatto meglio. È stato strumentalizzato dalle regioni che vogliono mettere in discussione il Titolo V della Costituzione, la parte che riguarda le competenze Stato-regioni. Quindi è inevitabile che tutto questo si è portato dietro una forte componente ideologica. Tutti sogniamo un’Italia ecocompatibile ed è brutto concepire questa aspirazione come uno scontro: in realtà siamo tutti d’accordo sui fini ma è normale che ci sia una divisione sul modo per raggiungerli. Ed è importante scindere le vere motivazioni del referendum dalle strumentazioni: votare deve essere un’azione consapevole, scevra di ogni influenza politica. Se non affrontiamo un dibattito serio e costruttivo andare a votare è solo una giornata persa.

Per concludere, un’ultima riflessione. Se il referendum non è una risposta efficace, qual è futuro? Servirebbe una nuova cultura ambientalista?

Intanto, facciamo esaurire i giacimenti. Chiuderli senza che siano esauriti, poi, potrebbe essere anche meno sicuro. Investiamo nell’innovazione e pungoliamo il governo per raggiungere un ambientalismo sano. La volontà dei cittadini deve essere quella di voler cambiare, quindi è anche una questione di mentalità. Allo stesso tempo si deve dare l’opportunità di investire in Italia e non dimenticarsi delle eccellenze che abbiamo nel settore energetico. La cultura ambientalista è fondamentale. Non bisogna cambiare solo perché ci viene imposto: il rispetto dell’ambiente è un atteggiamento da adottare fin da bambini. E magari i progressi che abbiamo fatto noi oggi saranno portati a compimento dai nostri figli.

Si ringrazia Matilde Giovani e il comitato Ottimisti e Razionali per la disponibilità.

Leonardo Marinangeli

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