Catarsi e Gen Z: il Quartetto Gyldfeldt alla Chigiana

Purtroppo devo confessarvi una cosa: andare alla Chigiana è ormai un’abitudine. Sono forse diventata come i signori di mezza età che conversano prima del concerto e durante l’intervallo, scambiandosi impressioni e chiedendosi se la Sonata a Kreutzer sia di Beethoven? Chi può dirlo. Certo è che ho assistito al concerto del Quartetto Gyldfeldt seduta in mezzo a loro, di nuovo, quindi potrei essere stata influenzata. O muori da eroe, o vivi abbastanza a lungo da diventare il nemico.

Il Quartetto Gyldfelt è giovane e composto da giovani: i quattro musicisti hanno meno di ventitré anni e suonano insieme dal 2016. Il programma prevedeva i Quattro pezzi per quartetto d’archi di Mendelssohn, il Quartetto per archi n.1 di Janáček e il Quartetto per archi n.1 di Grieg. Insomma, tre brani che avevano molte cose da raccontare.

Da sinistra a destra: Sarah Rösel (viola), August Magnusson (violino), Jonas Reinhold (violino), Anna Herrmann (violoncello)

La cosa più bella di un concerto di una formazione cameristica è vedere in che modo si esplica l’affiatamento fra i componenti. Bisogna saper suonare insieme, e bisogna comunicare a gesti. L’occhiata che si sono lanciati tra di loro prima di attaccare è una delle cose più belle che si possa vedere in un concerto di musica classica.

I Quattro pezzi di Mendelssohn sono pienamente romantici: emotivi, tragici, drammatici, evocativi. Specialmente il Capriccio mi ha trasmesso una certa angoscia, uno struggimento indecifrabile. Il Quartetto Gyldfeldt ci ha dimostrato cosa significa saper suonare insieme con la Fuga, dove i suoni sono passati da un archetto a un altro senza soluzione di continuità e senza la minima imprecisione.

Janáček è stato superlativo e molto, molto catartico. Il Quartetto n.1 è detto anche Sonata a Kreutzer. Janáček non si ispirò a Beethoven ma al romanzo breve omonimo di Tolstoj. Il narratore diventa il confessore di Vasja Pozdnyšev, che ha ucciso la moglie in un impeto di gelosia. Il sospetto di un tradimento era generato dall’amicizia tra lei e un violinista; galeotta fu l’esecuzione della Sonata a Kreutzer. Il motivo della gelosia serpeggia tra le note, dolci come i ricordi del passato e graffianti come i dubbi. Sono rimasta avvinta, paralizzata; come in un’esperienza catartica, il brano ha assorbito completamente ogni brutto pensiero. Strabiliante l’abilità tecnica dei ragazzi: specialmente nel secondo movimento le note si sono fatte meccaniche, come se fossero cigolii di robot. Le pause e i frequenti cambi di tempo hanno complicato ulteriormente le cose: i quattro gestivano tutto lanciandosi occhiate e facendo cenni.

Ponte tra Mendelssohn e Janáček, Grieg ha completato l’opera catartica. Tutta la tensione accumulata era svanita e rimaneva soltanto la musica, che richiamava il folklore norvegese e le danze popolari, e che riscaldava il cuore. L’applauso finale è stato fragoroso; qualcuno dietro di me ha fischiato facendo ridere i ragazzi sul palco. Il bis è stato annunciato in italiano (con pesante accento tedesco) dal paonazzo violinista.

Per i giovani è molto difficile farsi largo nel mondo della musica classica, dominato da mostri sacri e grandi interpreti e seguito da un pubblico che talvolta storce il naso di fronte all’interpretazione di un ventenne. Abituato com’è a sentire i grandi, e dando per scontato che l’autorità e la bravura siano direttamente proporzionali all’età, gli ascoltatori spesso si siedono davanti ai ragazzi con un certo pregiudizio. Molte volte mi è capitato di sentir denigrare un concerto solo perché i musicisti avevano meno di trent’anni. Il Quartetto Gyldfeldt ha suonato a testa alta, senza timore, ben consapevole della loro statura. Per questo faccio loro i miei complimenti.

Un ultimo appunto: cara signora, la Sonata a Kreutzer è di Beethoven, sì. Per capire cosa c’entrasse con Janáček bastava leggere il programma che le è stato consegnato…


Federica Pisacane,

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