“Pinocchio” di Matteo Garrone: una recensione

Non c’è periodo migliore del Natale per trascorrere un pomeriggio al cinema, riscoprire la magia delle luci che si spengono, il brusio degli spettatori che s’acquieta e l’immergersi nella storia narrata da uno schermo ampissimo, accogliente. Con queste premesse, e anche con un filo di curiosità, sono andata a vedere l’ultimo Pinocchio, scritto e diretto da Matteo Garrone.


Pinocchio” si pone coerente in una filosofia, se così la si vuole chiamare, che sta attraversando tutto il mondo cinematografico, dall’animazione ai grandi classici. Ossia, la riscrittura di una narrazione già varie volte protagonista di adattamenti precedenti.

Ed ecco che si pone il rischio di come considerarli: se confrontarli con i suoi precedenti, se elogiarne l’aderenza alla storia “narrativa” originale, o piuttosto nel notificare e rinsaldare le novità che un punto di vista ulteriore (e ennesimo) apporta al racconto.


L’adattamento di Matteo Garrone

La devozione di Garrone alla fiaba è ben nota. Eppure, vista la singolarità della sua cinematografia, stupisce la sua scelta di dedicarsi al remake di una fiaba moderna e tanto celebre come Pinocchio.

Di adattamenti, se ne contano infatti decine, incluso l’instancabile interesse anche da parte del panorama internazionale (pare che Guillermo del Toro si stia dedicando a una sua versione per Netflix).

La grande sfida di Garrone, uscito trionfatore dal successo di critica e pubblico col suo “Dogman” sta tutto nell’accordare la tradizionalità del Pinocchio con l’evoluzione delle nuove tecniche filmiche, compresi gli effetti speciali.

Eppure, tutti i suoi personaggi, fantastici o meno, animali o persone, sono supportati da una voce e una persona attoriale che garantisce la concretezza del viso e delle movenze, traslate e modificare poi attraverso tecniche digitali.

Non stupisce, comunque, che gran parte sia “semplice” makeup: lo stesso giovane attore che impersona Pinocchio si è concesso a quattro ore giornaliere di trucco per “divenire” di legno.

Benigni- Geppetto con il suo Pinocchio, interpretato da Federico Ielapi

Pinocchio è fedele a Pinocchio?

L’aderenza a “Le avventure di Pinocchio” è indubbia, e anche sorprendente. Così come nella mente di Collodi, i burattini di Mangiafuoco sono “umanizzati”; il grillo, invece che filiforme voce di coscienza, è un corpulento insetto con la faccia a metà tra il bambino e l’uomo; la fata, coetanea di Pinocchio.

Tornano anche personaggi completamente tagliati nelle versioni precedenti: la chiocciola, il giudice del palazzo di Giustizia, il tonno. Risalta il rapporto, mai scontato, tra padre e figlio, con un Geppetto votato interamente al suo figlioletto.

Garrone mantiene un buon equilibrio; non forza mai la mano sul sentimentale, o sull’umorismo troppo sfrontato. Si tira indietro, come un buon narratore, nell’entrare lui stesso all’interno della storia.

La sua voce non si sente, ed è tutta nelle mani di un cast d’eccellenza. Che non si limita a ricoprire delle macchiette, ad entrare in panni già messi. Invece, disvelano e sconvolgono il loro personaggio, che riguardi il Proietti-Mangiafuoco; la coppia Papaleo e Ceccherini- Gatto e Volpe; e lo stesso Benigni- Geppetto.

Come si colloca allora, questo Pinocchio? Si potrebbe dire che Garrone tenti un esercizio di stile, per una volta nel senso buono nel termine, non volto all’artificio quanto piuttosto all’esplorazione di cosa, ancora, il cinema può offrire.

Come se gusto, nel portare in scena il Pinocchio, sia tutto quello innocente e insieme impetuoso del raccontare, ancora una volta, una storia che si è molto amata, da chi l’ha davvero amata.

Perchè dopotutto, Pinocchio, non ha mai smesso di parlarci.


Elisa Agostinelli

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