“Partir” di Elina Duni: il coraggio del dolore

“C’è un preciso momento in cui dal dolore nasce la gioia, questo mistero dell’essere, questa trascendenza del male”. Così recita il programma di sala che tengo stretto tra le dita arrossate dal freddo mentre, miracolo!, mi precipito sull’unico panchetto rimasto libero sulla balconata. Alzo lo sguardo verso l’affresco sul muro e mi rendo conto che quello che credevo fosse un carro in realtà è un cavallo. Forse ho bisogno di una visita dall’oculista.

Elina Duni

Elina Duni, indiscussa protagonista

Questo concerto mi ha incuriosita fin dalla presentazione della stagione musicale. Insomma, una cantante jazz inserita in una stagione prevalentemente di musica classica è già un fatto di per sé straordinario. Elina Duni è una cantante albanese educata al jazz e alle note classiche; a dieci anni lascia l’Albania e studia canto classico e jazz in Svizzera. Il suo pianista, Colin Vallon, la incoraggiò a cantare in albanese: da qui è partito il suo viaggio nella musica popolare non solo della sua terra, ma di altre parti del mondo. Viaggio che trova la sua esplicazione in Partir, album sul quale si sarebbe articolato il concerto. Sapevo che sarebbe stato un concerto fuori dall’ordinario, ma come al solito lo stavo sottovalutando.

L’apparizione

Le luci in sala si sono improvvisamente spente, lasciando la platea al buio. Solo le luci vicino al soffitto sono accese, creando degli interessanti giochi di ombre sui volti, sugli stucchi, sul palco. Una donna completamente vestita di bianco appare come un fantasma alle spalle del pubblico, intonando un canto in una lingua affascinante e misteriosa; la sua voce è struggente come quella di un fantasma che non riesce a trovare pace. Quando arriva sul palco si materializza; sotto la luce violacea del riflettore acquista una corporeità e una voce, che introduce il filo conduttore dell’album. Siamo sempre pronti a partire, per dove non importa. L’importante è fuggire dal dolore, dalla miseria, dalla paura; l’importante è tendere verso una piccola fiammella di speranza, non importa quanto effimera e lontana sembri. Non c’è una meta e forse non ci sarà mai o addirittura quella meta è dentro di noi, nella gioia che proviamo dopo un immenso dolore. E io, seduta sul panchetto, mi sono lasciata catturare.

Il flusso della musica

Accompagnata dalle percussioni, dalla chitarra e dal pianoforte, Elina Duni ci ha condotti per mano sulle note di canti tradizionali kosovari, albanesi, macedoni e svizzeri, ma non solo. L’amore tragico raccontato da Alain Oulman in Meu amor, l’Egitto ottocentesco cantato da Muhammad Abd al Rahim al Masloub (Lamma bada yatathanna), l’amarezza del migrante italiano nella voce di Domenico Modugno (Amara terra mia) e molti altri, fino a Je ne sais pas di Jacques Brel: Partir incanala in un flusso ininterrotto “l’abisso del dolore, il cuore amaro come un deserto” fino all’“ultimo rifugio: la gioia”.

Un momento del concerto

Storie raccontate da una sirena

La voce di Elina Duni è sensuale, avvolgente, intima: ci si sente ipnotizzati come Ulisse, impossibilitati a distogliere l’attenzione. Gli scarni arrangiamenti la mettono ancora più in evidenza: quando non canta da sola si accompagna a un solo strumento, suonato con ancora più trasporto.

A mano a mano che il concerto prosegue ci racconta una storia, un sentimento collegato al brano. Così Lamma bada yatathanna si rivela essere un canto d’amore e di desiderio di una giovane donna (piccola parentesi filologica – perché ci ho dovuto dare un esame -: questo brano si inserisce nella forma delle muwaššaḥ, componimenti in dialetto arabo andaluso che risalgono al IX-Xsecolo); Amara terra mia diventa l’inno degli esiliati; Oyfn Veg rappresenta l’ansia, insita nel genere umano, di spiccare il volo.

La bellezza del dolore

Una ciotola riparata con l’arte kintsugi

Prima dell’ultimo brano Elina Duni ci riserva una piccola riflessione sul kintsugi, l’arte giapponese di riparare gli oggetti rotti utilizzando oro o argento liquido, in modo da rendere ben visibili le crepe. L’oggetto diventa così unico e irripetibile, e racconta una personalissima storia. Così siamo noi: ciascuno di noi ha delle crepe che ci rendono unici. Dobbiamo avere il coraggio di trovare l’oro per le nostre ferite e renderle meravigliose, in grado di raccontare la nostra vicenda esistenziale. Dobbiamo amare queste ferite perché è da lì che entrano la luce e l’amore, l’unica forza che può permetterci di superare il dolore. Questa forza è, appunto, inesauribile: anche quando crediamo che sia morta, una piccola parte continuerà a vivere nella forma di “una canzone cantata a piccole labbra”. Raggiunta questa consapevolezza possiamo abbracciare la nostra ferita e il nostro amore. Con queste parole nel cuore ho ascoltato Je ne sais pas di Jacques Brel: Je ne sais rien de tout cela / Mais je sais que je t’aime encore.

Come sempre, ultimamente, sto avendo delle piccole epifanie in forma di musica. Grazie al cielo il prossimo concerto al quale potrò assistere sarà il 18 gennaio, altrimenti non avrei retto un’altra carica epifanica. Quel che è certo è che da oggi in poi proverò a essere un po’ più gentile verso le mie ferite, e tenterò di coprirle d’oro e di portarle con orgoglio.


Federica Pisacane.

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