No-Triv: quanto valore diamo alle nostre scelte?

Il prossimo 17 Aprile gli elettori italiani saranno chiamati al voto per il referendum abrogativo cosiddetto “No-Triv”, proposto per la prima volta nella storia della Repubblica su iniziativa regionale (solitamente avviene per iniziativa popolare) richiesto, nella fattispecie, da Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna, Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise. Il referendum interverrà sulla legge ambientale che regola le trivellazioni in mare, in particolare per  ciò che concerne il rinnovo delle concessioni estrattive di petrolio e gas naturale alle piattaforme situate sui giacimenti entro le 12 miglia dalle coste italiane. A quasi un mese esatto dal voto la domanda che sorge è: esattamente, per cosa voteremo?

Per quanto la denominazione potrebbe essere interpretata in altro modo, il referendum del 17 aprile non riguarderà la possibilità o meno che avvengano nuove trivellazioni al largo delle coste italiane (già vietate entro le 12 miglia, comunque effettuabili oltre tale distanza anche in caso di vittoria del “Sì”), ma il rinnovo delle concessioni (saranno 21 quelle che riguarderà il referendum) che tuttora permettono alle piattaforme offshore di continuare il loro processo di estrazione. In estrema sintesi, se dovesse vincere il “”, alle piattaforme attualmente esistenti  non verrebbero rinnovate le concessioni di sfruttamento una volta raggiunta la loro naturale scadenza, anche se nel giacimento dovesse ancora trovarsi gas o petrolio.

Le associazioni ambientaliste, tra le quali Greenpeace o i costituitosi comitati No-Triv, hanno avviato una campagna a favore del “Sì” come “voto politico”: far capire al governo che la comunità italiana vuole guardare al futuro e non alle fonti di energia non rinnovabili. In aggiunta, il blocco dello sfruttamento dei giacimenti esistenti scongiurerebbe il pericolo di eventuali disastri ambientali sulla falsariga del tristemente noto incidente del Golfo del Messico nel 2010, tragedia ambientale diventata simbolo della pericolosità delle trivellazioni offshore. L’altro schieramento, il comitato “Ottimisti e razionali” presieduto da Gianfranco Borghini (ex deputato del PC e poi del PDS), si è schierato a favore del “No” facendo leva sulle questioni dei posti di lavoro messi a repentaglio dall’eventuale vittoria dei “Sì”, sull’improbabilità di un disastro ecologico e sulla debolezza del concetto di “voto politico”, un modo ritenuto sbagliato per chiedere al governo maggiori investimenti sulle fonti di energia rinnovabili. Inoltre, rinunciare all’estrazione degli idrocarburi al largo delle nostre coste significherebbe aumentarne l’importazione e di conseguenza il transito di petroliere, con tutti i rischi del caso.

Non essendo del tutto chiaro quali delle ragioni dei due schieramenti abbiano più peso, vale la pena soffermarsi sulla campagna mediatica che ha avuto inizio negli ultimi giorni. Dal secondo dopoguerra in poi, gli italiani sono potuti ricorre all’istituto del referendum in diversi momenti della storia della Repubblica che hanno fatto da spartiacque per temi fondamentali.  Ma quanto un voto del genere rischia di trasformarsi in un voto poco ponderato? Come già accennato, i comitati a favore del referendum hanno assunto la fuorviante denominazione No-Triv nonostante, a prescindere dall’esito delle votazioni, nulla cambierà sulle politiche di trivellazione in mare attualmente in vigore. Ne consegue che, essendo la questione più tecnica e meno intuitiva di quanto sembri, si rischia di fare una campagna giusta per principio ma ambigua per modalità. Solo 5 anni fa, nel giugno del 2011, gli italiani furono chiamati al voto per il referendum dei 4 quesiti rispettivamente sull’energia nucleare, il legittimo impedimento e i due inerenti alla gestione pubblica dell’acqua. Proprio questi ultimi due quesiti hanno delle analogie, con le dovute proporzioni, per quanto riguarda le strategie di comunicazione dei comitati promotori, con quello del prossimo 17 aprile. La battaglia dei comitati a favore dell’acqua pubblica fece passare un messaggio poco chiaro: quello di un’acqua “privata” inaccettabile rispetto a una pubblica “giusta”. La vittoria del “Sì” ha impedito ogni penetrazione privata nel settore ma visto lo stato in cui versa il servizio idrico del Paese alcuni si sono chiesti se quella del 2011 sia stata effettivamente una vittoria.

A questo punto viene da chiedersi: quanto il referendum rischia di essere una sorta di momento autoassolutorio, che tiene a bada i rimorsi di coscienza di un cittadino poco partecipe alla vita pubblica ma che decide di attivarsi solo quando gli viene posto un quesito netto, che vota più per principio che per reale conoscenza dei risvolti che la sua scelta provocherà?

Leonardo Marinangeli

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