Vagando per stanze vuote: "A Moon Shaped Pool"

In you I’m lost (Present Tense)


Negando, esserci. Il concetto di sparizione non è un qualcosa di nuovo, applicato ai Radiohead: How To Disappear Completely, la canzone cardine del loro album “Kid A” del 2000, è l’emblema della loro stessa poetica, per la quale la conoscenza dell’annullamento è il necessario presupposto a un coerente e consapevole cambiamento. Aldilà della trovata scenografica del cancellare ogni traccia di sé da internet, i Radiohead nel promuovere il loro nuovo “A Moon Shaped Pool” non hanno fatto che rimanere fedeli al loro credo, uccidendo metaforicamente la loro precedente incarnazione e trasformandosi in una versione rinnovata e aggiornata al 2016 di loro stessi. Va da sé che il processo in questione risente incredibilmente, per i suddetti motivi, dello stato d’animo dei membri della band, e su tutti di Thom Yorke. Ma a questo punto ci arriviamo con calma.

Come è fatto un disco dei Radiohead? Per quanto differente dal precedente, un album dei Radiohead seguirà sempre dei precisi atteggiamenti nel dispiegamento della scaletta che ne uniformano l’andamento rispetto a un preciso modello: un inizio solitamente spiazzante, quindi uno sviluppo che articola le possibilità espresse nell’esordio e che culmina in una climax di metà album; a questo punto, dopo un breve episodio di pausa, prende vita una seconda fase climatica, che di solito rappresenta il fulcro tematico dell’intero progetto e che va a sciogliersi in un finale catartico e liberatorio. È importante comprendere che, malgrado il riferimento più o meno flessibile a un’articolazione fissa del processo empatico, nessun album dei Radiohead è veramente simile a nessun altro, e ciò avviene perché i Nostri, oltre a lavorare di volta in volta a un sound peculiare, danno un valore capitale all’unitarietà del prodotto finito: i Radiohead, al di fuori della dimensione progettuale, non hanno motivo o intenzione di esistere. Lo dimostrano nei loro tour, in occasione dei quali riarrangiano di volta in volta la loro vecchia produzione per poterla inserire coerentemente tra i nuovi pezzi, lo hanno dimostrato quando la loro vecchia etichetta, la EMI, pubblicò un Best Of di loro canzoni malgrado la loro assoluta contrarietà. A Moon Shaped Pool non differisce in nulla da questo schema, è un concentrato coerentissimo di idee passate attraverso anni di labor limae e filtrati da una volontà ordinatrice che definisce a monte quale dovrà essere il suono dell’opera finita.

Lirismo intimista: il track by track. Chi si deve essere speso più di tutti nella creazione di “A Moon Shaped Pool” deve essere stato il polistrumentista Jonny Greenwood, il più dotato di qualità compositive, che da qualche anno è anche scrittore di colonne sonore di successo. La sua mano è evidente in ogni pezzo, dalle partiture di archi alla volontà di dare un suono cinematico a molti passaggi, dalle orchestrazioni all’attenzione spasmodica per il dettaglio: per quanto riguarda le sonorità, la sua presenza è di sicuro la chiave di lettura più corretta per capire l’album.

Radiohead

Si comincia con Burn the Witch, che proietta il discorso ad anni luce di distanza dagli effluvi percussivi di The King of Limbs, mantenendo sì un andamento profondamente ritmico, ma ponendo da subito l’accento sugli archi, la cifra dell’intera opera. Sebbene Burn the Witch risulti tra i momenti atti a soddisfare il pubblico e meno coraggiosi – non a caso stiamo parlando del singolo di lancio – grazie a essa il sasso viene lanciato nella nostra Moon Shaped Pool, e i cerchi che produce cominciano a descriverci la realtà in cui ci introduciamo. In questo senso, il passaggio a Daydreaming equivale a una mano che mentre galleggiamo ci tira a fondo, imponendoci repentinamente una totale immersione, sia critica che emotiva, nel cuore pulsante degli eventi: un pezzo struggente, dimostrazione lampante di quell’estetica sottrattiva che caratterizza da sempre alcuni dei migliori Radiohead.

Troppe le lacrime fin da subito, e loro lo sanno, per questo fanno proseguire la prima fase climatica dell’album con Decks Dark e Desert Island Disk, due pezzi il cui ruolo è quello di rialzarci da in piedi attraverso belle melodie fatte di luce tenue, notturna e diafana nel primo caso, campestre e mattiniera nel secondo. Episodi transitori che sfociano in una addolorata, nervosa e finalmente furiosa Ful Stop, una cavalcata sintetica di cuori infranti e delusi, con un basso che ribolle e che monta fino alla carica chitarristico-percussiva del finale e all’intreccio dei diversi registri straziati di Thom Yorke. All’interno dei vecchi album possiamo trovare molti precedenti, sia stilistici che di significato, di pezzi atti a saturare l’empatia di chi ascolta, per poi ricostruirla nella seconda parte del disco. Feral, Weird Fishes/Arpeggi, Where I End and You Begin, I Might Be Wrong, How to Disappear Completely, Let Down: tutti questi pezzi, come Ful Stop, consumano un discorso per permettergli di rinascere di lì a poco.

La seguente Glass Eyes, al pari delle vecchie Fitter Happier, Treefingers, I Will o Faust Arp, rappresenta il tipico momento di pausa, in chiave minore, che segue alla consuzione emotiva appena attuata. Una tetra, funesta, altissima ballata accompagnata da un violoncello che taglia in due il disco e che ci fa vivere l’attacco della successiva traccia come la piacevole fine di un dolcissimo incubo.

Identikit dà di nuovo il via alle variazioni sul tema principale, costruendosi pian piano attorno a un secco giro di batteria e usando la voce di Thom come legante tra le varie sezioni, che alternano sintetizzatori a chitarre cantanti in un bel crescendo che congiunge alla successiva The Numbers. Se quest’ultima ricorda, nell’impostazione jazzistica, molti pezzi del biennio 2000/2001, portando con sé echi di Optimistic o Dollars and Cents, Present Tense si addentra in ambienti sonori rarissimamente toccati in precedenza dai cinque di Oxford: Sudamerica, bossanova, ritmi obliqui e ovviamente, qua e là, gli archi, per un risultato oltre ogni rosea aspettativa per i fan che si aspettavano giustizia per questa canzone – nota da anni per essere stata suonata live da Thom, ma mai registrata prima –. Con Tinker Taylor Soldier Sailor Rich Man Poor Man Beggar Man Thief siamo a un passo dalla conclusione dell’album, e malgrado il titolo da filastrocca ciò che ci si piazza davanti è un maestosissimo crescendo, che culmina in un trionfo di archi – questi sì, di ascendenza tutta cinematografica –.

RadioheadCon questo falso finale si conclude l’album di Jonny Greenwood, perché l’ultimo pezzo che ci rimane ancora da affrontare è la più yorkeiana delle canzoni, True Love Waits: un pezzo che nasce nella prima metà degli anni Novanta, che trova spazio su disco solo come live, nell’EP “I Might Be Wrong” del 2001, e che da allora, proprio per quella sua versione così semplice e sentita, fatta di voce, chitarra e cuore, è una delle canzoni più amate dai fan. Qui la troviamo in una veste che adesso possiamo dire definitiva: Thom lavora in modo minimalista, adornando la voce, rotta di commozione, di un solo organo, con lievi tessiture pianistiche che fioriscono qua e là. La pubblicazione di questo brano racchiude, per il significato che lo stesso porta con sé, la chiave di lettura probabilmente più sincera e plausibile di “A Moon Shaped Pool”.

Il suono del lenire. Non è un mistero che True Love Waits sia stata composta da Thom per la sua storica compagna, dalla quale si è recentemente separato: senza voler sfociare in gossip di cattivo gusto, è facile osservare come, durante il dispiegarsi dell’intera discografia dei Radiohead, la loro musica sia sempre stata decisamente permeabile allo stato d’animo dei componenti della band, e su tutti di quello di Yorke. Laddove Pablo Honey nasceva dal disagio giovanile di quest’ultimo, laddove The Bends e Ok Computer risentivano dello sradicamento delle band rispetto alla loro precedente vita di non-famosi, laddove In Rainbows e The King of Limbs devono il loro calore e la loro maniera a una serenità finalmente raggiunta, A Moon Shaped Pool è un disco di malinconica rassegnazione, di ferite che lentamente si cicatrizzano, di disilluse consapevolezze. L’artwork della copertina ricalca il respiro dell’album, che dopo tante prove “a colori” e a loro modo vitalistiche si riduce a una diafana alternanza di luci e ombre: un disco fatto principalmente di chitarre acustiche, basso e archi, dove le percussioni, l’elettricità e soprattutto l’elettronica si rarefanno, ad amplificare solo dove necessario la potenza espressiva di determinati passaggi.

Insomma, “A Moon Shaped Pool” è l’ostico album di una band in pace con se stessa, in pieno controllo dei suoi mezzi, ma che non cessa, neanche dopo venticinque anni di carriera, di trasporre in suono le più profonde corde umane, toccando in questo caso quelle che vibrano quando si passa senza meta di stanza vuota in stanza vuota, come nel video di Daydreaming: è un disco di assenze, di lacrime ormai asciutte, di membra da curare grazie al potere catartico della musica.
Quella True Love Waits messa là in fondo all’album, finalmente incisa, non è altro che questo: un esorcismo, un cerchio che si chiude, una luna che si assottiglia in silenzio prima di sparire.

Nicola Carmignani

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