Guardare la realtà dal punto più vicino possibile per raccontarla. L’incontro con Lucia Goracci.

Si è svolto lo scorso 26 febbraio, presso l’auditorium del Collegio di S. Chiara l’incontro “Oltre la guerra. Storie nascoste di disuguaglianza e di persecuzione” che ha ospitato un nome di punta del giornalismo italiano: Lucia Goracci, corrispondente dall’estero e inviata speciale di prim’ordine nei conflitti armati più recenti. L’evento, organizzato dal corso di laurea in Scienze della comunicazione del dipartimento di Scienze sociali, politiche e cognitive, da USiena Welcome, rientra nel progetto Legalità Organizzata, una rassegna di incontri, dibattiti, proiezioni, nata dalla collaborazione tra l’Università di Siena e altri enti del territorio  per promuovere  la cultura della legalità e dei saperi liberi nella strenua lotta alle mafie.

Classe 1969, di natali toscani (anzi, tiene a precisare, maremmani) Lucia Goracci è uno dei volti più noti della RAI, dove ha iniziato la sua attività alla fine degli anni Novanta, prima come conduttrice del TgR Sicilia, poi come inviata in Medio Oriente del Tg2, fino all’assunzione al Tg3  per la quale è stata sia conduttrice che corrispondente dall’estero, raccontando molti degli eventi cruciali del nostro tempo: dal Medio Oriente al terremoto di Haiti nel 2010, dalle primavere arabe alla guerra civile libica, dalla questione ucraina alla guerra in Siria. Dal 2013 lavora a RaiNews24.

L’incontro-chiacchierata con la giornalista, moderato dal Professore Luca Verzichelli, docente di comunicazione politica presso il dipartimento di Scienze sociali, politiche e cognitive, procede alternando i racconti della Goracci ai video reportage realizzati dalla sua troupe negli ultimi mesi a Kobane, segno che dalle parole non possono prescindere le immagini, i video, persino le testimonianze sonore delle esplosioni delle bombe o delle scariche di mitra: sono questi, in definitiva,  gli assi sintagmatici del buon giornalismo, che nel reportage in loco realizza appieno la sua ragion d’essere, vale a dire la sincronia fra l’atto di raccontare nel momento in cui la nuda materialità di quel tassello di realtà si manifesta. Quella dell’inviato speciale è forse l’unica professione legata al giornalismo che tiene assieme questi due aspetti perché, a ben vedere, il reporter oltre che a documentare i fatti, si trova, volente o nolente, a viverli. Partendo così dalla sua esperienza personale, Lucia Goracci ci racconta la guerra in Siria – alla quale ultimamente ha dedicato numerosi servizi – dalla proclamazione, nel giugno del 2014, del califfato di Abū Bakr al-Baghdādī, alle macerie di Kobane liberata, lo scorso 28 gennaio, dalle forze curde. E’ in particolar modo alla resistenza di Kobane, punto nevralgico del Kurdistan siriano e primo banco di prova della strategia militare degli Stati Uniti, che la Goracci ha rivolto la sua attenzione, spingendosi oltre la frontiera turca, fino ad arrivare nella città-campo di battaglia, un cimitero di macerie nel quale bisogna camminare velocemente e a testa bassa, facendosi largo tra i detriti e pregando di non esser raggiunti da un colpo di mortaio. L’angolo visuale che ci restituiscono i servizi della giornalista, commentati ad ogni passaggio, è quello del testimone tenace, qualche volta involontario, che spesso brancola nel buio degli allarmi bomba e delle false piste, ma che non rinuncia a farsi portavoce della Storia e delle esistenze particolari che ad essa prendono parte.

Il gesto della testimonianza per Lucia Goracci ha una sola regola, un dictat di ordine etico prima che giornalistico, una responsabilità umana prima che professionale: andare fisicamente nel luogo in cui avvengono i fatti, o almeno, avvicinarvisi il più possibile. Questa la “regola d’oro” della giornalista che si realizza materialmente in tutti i suoi lavori nei quali la distanza tra la macchina da presa e la realtà si accorcia sensibilmente: al principio generale dell’ andare fisicamente “il più vicino possibile” corrisponde un analogo movimento della narrazione che prova a dar conto dei micro mondi che dietro le macro questioni della Grande Storia si annidano. Nella fattispecie, la Goracci è riuscita a raccontare la quotidianità di chi ha resistito alla disgregazione del tessuto urbano di Kobane, di chi ha provato a difendere i propri diritti nonostante tutto; insomma, tutto ciò che sta “dietro la guerra”: le donne che si organizzano in Ypj, (acronimo che indica le Unità di autodifesa femminili) combattendo al fianco dei curdi siriani a difesa della città, l’incredibile solidarietà della comunità civile, i bambini che trascorrono le loro giornate sottoterra dentro scuole-bunker per proteggersi dalle bombe. Proprio al tema dell’istruzione osteggiata dal fondamentalismo islamico la Goracci ha recentemente dedicato un documentario: si intitola Le bambine non vanno più a scuola e racconta, a partire dal martirio di Malala Yousafzai (la bambina pakistana, oggi Nobel per la Pace, che nell’ottobre del 2012 era stata resa in fin di vita per avere rivendicato il diritto di compiere gli studi), la battaglia delle bambine e delle adolescenti pakistane che nelle aree tribali del paese vanno a scuola rischiando la vita, perché i talebani non ritengono l’istruzione un diritto delle donne e colpiscono le scuole femminili, chi ci va e chi ci insegna.

Giornalismo dunque come responsabilità civile, necessità etica e testimonianza sul campo, lo stesso che professavano Terzani e Kapuściński. Ma la “regola d’oro” della Goracci ci restituisce anche un’importante lezione di metodo laddove le meraviglie dello storytelling nostrano ci hanno da tempo abituato ad un’informazione in cui spesso la verifica rigorosa e l’attendibilità delle fonti sono rovinosamente sacrificate sull’altare della tempestività e del sensazionalismo, quel tipo di informazione, chiosa la Goracci, tutta italiana, con il tweet facile e la memoria corta.

Bisognerà ammetterlo: non capita spesso di vedere in carne e ossa, lì a pochi metri di distanza, la persona che tutte le sere vedi in tv nei posti più pericolosi del mondo. La prima domanda che viene in mente, guardandola sorridere e rispondere alle domande degli studenti, è: come ha fatto ad uscire viva da Kobane, Gaza, Tripoli, Donetsk? Non ha paura di farvi ritorno? Non tiene alla sua vita, sopra ogni altra cosa?

Come intuendo la domanda la Goracci risponde citando a memoria la chiusa di un celebre componimento di Ungaretti, “non sono mai stato tanto attaccato alla vita”: il curioso paradosso è che è proprio nei luoghi martoriati dall’incedere della storia e dei conflitti che la vita lotta per restare attaccata alle persone. Al giornalista, il compito di raccontare l’umanità che esiste prima, dopo e durante la guerra, avvicinandosi il più possibile, fino ad immergersi del tutto.

 

Veglia

Cima Quattro il 23 dicembre 1915

 

Un’intera nottata

buttato vicino

a un compagno

massacrato

con la sua bocca

digrignata

volta al plenilunio

con la congestione

delle sue mani

penetrata

nel mio silenzio

ho scritto

lettere piene d’amore

 

Non sono mai stato

tanto

attaccato alla vita.

 

(G. Ungaretti, Allegria, 1931)

 

Chiara Licata

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