Comprimere Beethoven in un minuto sui social

C’è un problema di fondo nell’eterna lotta tra vecchie e nuove generazioni: i presupposti culturali non sono gli stessi. Ultimamente c’è un baratro. Ci si riunisce a parlare di social media, ma si affrontano da un punto di vista che non è quello dei giovani che i social media li usano e li studiano dall’interno. Com’è che si dice? Per criticare bisogna conoscere, e un’analisi dall’interno è più efficace di una distaccata.

Si tende a pensare che i social siano degradanti senza considerare il punto di vista dal quale si guarda la piattaforma. È evidente che sia necessaria una selezione dei contenuti e degli utenti: se mi interessa l’arte barocca non seguirò mai Trash italiano, e viceversa. Ammesso e non concesso che si possa seguire solo una delle due cose. In ogni caso, Internet è un enorme contenitore di cose che, come ogni sistema, compreso l’universo, tende al caos. Siamo noi a dove fare una valutazione tra gli utenti, le pagine, gli hashtag da seguire. Quando mi iscrissi a Facebook per la prima volta, dieci anni fa, mettevo Mi piace a qualsiasi pagina e davo l’amicizia a chiunque, trovandomi la bacheca intasata di ciò che io considero spazzatura; dieci anni dopo, e in seguito a un estenuante lavoro di spoglio che dura ancora oggi, in bacheca ho solo meme, video di gatti e post di gruppi. Un discorso diverso merita Instagram, nel quale fare una cernita è ancora più semplice: se apro la mia home vedo le foto delle persone a me care, i soliti video di gatti, i meme che hanno come base dei dipinti e brevi video di musica classica.

Questo è il punto dove volevo arrivare. Come tutti ben sapete, mi occupo (anche) di musica classica. Uno dei grandi drammi di questo genere è la sua intrinseca incapacità di arrivare ai giovani. Questa mancanza è dovuta (anche) alla sua complessità, in quanto merita un ascolto più consapevole e attento di una canzone pop; va anche detto che, come ogni arte, sta vivendo il drammatico cambiamento di supporto adeguandosi poco e male. La riproducibilità dell’opera, con le tecnologie odierne, è aumentata: centinaia di macchine fotografiche immortalano lo stesso dipinto, migliaia di cellulari riprendono lo stesso concerto. Questi pezzi di arte vengono distribuiti nella rete, propagandosi potenzialmente all’infinito o quanto meno seguendo i nodi rappresentati da coloro che sono interessati. In ciò sta il punto nevralgico della questione: il marasma di Internet può essere ordinato per nicchie, ciascuna con un pubblico e delle regole. La musica classica non fa eccezione. Parlare dei social come di piattaforme degradanti, atte solo a ospitare foto in costume e barzellette stupide, significa avere una visione miope e assolutamente parziale.

L’arte non ha più la sua aura. Non l’ha certamente persa con l’avvento di Facebook: già con la fotografia e il cinema quest’idea ha iniziato a vacillare. Proprio per questo dobbiamo rallegrarci che esistano simili piattaforme, grazie alle quali possiamo scoprire nuove forme di espressione artistica e ritrovare antiche glorie sepolte nella polvere del tempo. Gli hashtag, in questo, ci aiutano moltissimo, indirizzandoci verso una nicchia di contenuti che può soddisfare la nostra curiosità. È impensabile voler raggiungere la grande massa, ma non perché non sia capace di apprezzare il bello ma perché, semplicemente, potrebbe non essere interessata. C’è qualcosa di male in questo? No.

La musica classica ha un altro problema di fondo: i suoi brani sono troppo lunghi per essere compressi in un minuto di video da postare su Instagram. Rispetto a una canzone pop, molto più ripetitiva e facilmente scomponibile, una sonata o una sinfonia hanno una struttura più complessa che non può essere ridotta a singoli e ripetibili nuclei. Allora come si risolve questo problema? È molto semplice: si seleziona il minuto che a noi sembra più caratteristico o che ci fa provare qualcosa e lo si posta. Questo minuto può essere in qualsiasi posizione e il video può mostrare qualsiasi punto dell’esecuzione: le mani del musicista, lo strumento, lo spartito, l’espressione del volto. Lo scopo è suscitare curiosità e partecipazione nell’annoiato utente che procrastina su Instagram.

Certo, questo minuto non è assolutamente omnicomprensivo e non potrà mai spiegare la complessità del brano; ma in fondo è davvero necessario? Non si può pensare di far avvicinare un neofita propinandogli una lezione sulla struttura di una sonata di Beethoven, si annoierebbe a morte. Persino io, che non sono una novellina (ma nemmeno un’esperta) non sarei interessata. Noi giovani siamo distratti e poco attenti? Può darsi, ma a una lezione teorica è preferibile l’ascolto concreto. E in ogni caso è sempre possibile inserire nella didascalia qualche piccola informazione, in modo da permettere al tizio che scrolla su Instagram di andare a cercare il brano su YouTube o il compositore su Wikipedia. Internet è un posto meraviglioso proprio perché c’è quasi tutto lo scibile umano, ed è letteralmente a portata di mano.

Smettiamo una buona volta, quindi, di considerare i social network come una piattaforma degradante. Lo hanno fatto con i giornali, lo hanno fatto con la radio, lo hanno fatto con la televisione. Bisogna essere in grado di usarlo in maniera attiva. Smettiamo di pensare che ridurre Beethoven a un minuto sia degradante. La bellezza è visibile anche in un minuto di video perché permea ogni singolo secondo. Da un minuto su Instagram può nascere una passione che dura una vita. In una parola: smettiamo di essere classisti.

Qui un articolo del New York Times sul tema.


Federica Pisacane.

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